È importante ricordare, e a maggior ragione quando siamo calati nell’esperienza di una pratica fisico-spirituale come quella yogica, che noi custodiamo – nel senso di “averne cura” – e non “possediamo” – nel senso di averne pieno dominio – un corpo vivente.
Ogni giorno ci nutriamo e manteniamo, ma spesso trascuriamo e non trattiamo bene la nostra corporeità, salvo poi accorgercene solo nel suo aspetto problematico del dolore e della malattia.
Ma custodire implica una responsabilità, nell’uso e nella considerazione del corpo e quindi della vita come dono, che presuppone la consapevolezza di un’origine che ci precede e considera la posterità che la segue.
Siamo infatti eredi di un mondo che a nostra volta lasceremo in eredità, e il corpo fa parte della realtà vivente: nel suo presente riunisce il passato e il futuro.
Prendersi la responsabilità di sé stessi è la cosa più difficile della vita, ma la difficoltà non si traduce con l’impossibilità che questo possa gradualmente avvenire.
E la profonda comprensione da cui muove questa possibilità di una “responsabilità limitata” su noi stessi è in diretta relazione al concetto di custodia.
Mi spiego meglio: il dominio, la padronanza hanno come conseguenza la “solitudine e l’isolamento dei numeri primi” e non solo questo; anche la profonda angoscia di questa responsabilità. Mentre il prendersi cura, il vegliare e non solo sorvegliare noi stessi come un padrone esigente, come un gendarme che teme insubordinazioni e rivolte da quella parte che non riesce completamente a dominare e gli fa paura, rivela una conoscenza di noi stessi proprio a partire dai limiti.
La “coesistenza pacifica” con le nostre fragilità qui non è da interpretare come un atteggiamento remissivo e rassegnato: al contrario è una continua ricerca e adeguamento, nell’approssimarsi ad un EQUILIBRIO INSTABILE, eppure EQUILIBRIO.
Ma il custodire implica pure la conoscenza di ciò che custodiamo, e insieme un’amorevole cura per quello che abbiamo conosciuto e quello che ancora ci sfugge.
La custodia non consuma. Usa e valorizza, e al contempo ci mette al riparo dall’usura dell’abuso e dalla decadenza della trascuratezza.
Questa AMOREVOLE CURA non è conseguenza del valore dato dal possesso, ma deriva dall’amore per la conoscenza della “cosa” come vissuto.
Ma avere cura implica un’attenzione costante, il risveglio e l’esercizio di una sensibilità che non è mai data una volta per tutte, che ci tiene al riparo dalla “distanza” (siamo ignoti a noi stessi) e dalla “trascuratezza” che ci abbandona ad una rendita illusoria che si perde nella nostra totale dimenticanza (nella tentazione dell’oblio di sé stessi).
Parlo del continuo sforzo a cui ci sottoponiamo ogni giorno per non fare la fatica del cambiamento;
parlo del non voler fare alcuna fatica, senza considerarne le conseguenze devastanti a livello psico-fisico e spirituale.
Ancora una volta allora è necessario trovare una misura, ma la misura della custodia è ben diversa da quella del dominio: in mezzo c’è la grande illusione dell’autodeterminazione che si traduce nella vita, nella “routine” esistenziale e nella ripetizione vuota e banale della chiacchera in terza persona del “si dice, si vive e si muore”.
Un muro invisibile che all’inizio ci tiene al riparo, ma finisce coll’imprigionarci in un CONTINUO NON VISSUTO invece di aprirci all’imprevedibilità e meraviglia di un VISSUTO CONTINUO.